Le prime luci, cominciano a chiazzare i muri bianchi della strada principale. Ho in mano il mio vecchio abito di seta nero, ormai adombrato dall'usura e dal tempo. Penso che forse farei bene a fare le valige ed andare alla stazione centrale dei pullmans... ormai odiavo i treni con la loro ipocrita comodità e con quell'odioso viscerale tran-tran sempre uguale... uguale a chi... uguale a cosa... lasciamo perdere!
Anche questa, perché no, poteva essere la notte giusta per congedarmi dall'immagine violenta e pur sbiadita di un lui più ipocrita di un miserabile treno, sempre presente e sempre in ritardo...
Mi guardo allo specchio.
Questa mania insolita e tiranna di trovare una conferma lì in piedi mi mette nella condizione di una sopravvissuta al limite del pensionamento.
Sono indecisa se mettermi a cantare "Vinceremo per la rossa libertà" o un tango di Gardell che parla di canizie, se dormire in piedi come i cavalli o farmi cullare lentamente e mollemente dall'immagine della donna che avrei voluto essere: Greta Garbo, ad esempio.
Oggi tutti pensano a Sharon Stone o a Julia Roberts secondo i gusti. Io invece al limite arrivo ad Ava Gardner o a Jane Fonda.
Questo è un sintomo di vecchiaia.
Suonano clacsons, mi affaccio alla finestra, la strada è piena di gente che cammina sui due lati, ci sono studenti con zainetti fluorescenti, donne che vanno al mercato, e c'è persino un coloratissimo camion della Coca-Cola.
Ficco la testa nel lavandino sotto l'acqua fredda. Voglio lavare quell'angolo di Hollywood che ho in testa, da qualche parte. Appesa al muro la foto di lui: un anarchico dell'amore.
Lo guardo.
Vedi è ancora Hollywood che mi perseguita. Quando lo conobbi potevo scegliere tra Bogart e Peter Lorre, tra un cinico cioè e un falso mansueto. Decisi di affidare l'ultima dimostrazione di perizia cinematografica a un più rassicurante e sorridente Fred Astaire... sapeva persino ballare il tip-tap. Mai errore fu più sconvolgente, provocatorio e pagato a caro prezzo.
Mi asciugo la faccia.
Riesco a tirare fuori un bicchiere di carta, pieno di rhum con
tanto di giaccio. Lo metto davanti a lui. Cerco di brindare. Non sembra gradire.
Mi infilo la seta morbida dell'abito che ho in mano. E mi rivedo signorina dalle gambe forti, i fianchi come si deve, un petto che si impone. Di giorno facevo la dattilografa da un avvocato, e di sera imparavo recitazione dai filo drammatici.
Una sera dimenticai di mettere le mutandine sotto il tutù. Il pubblico applaudì sfrenatamente. Fu il mio unico grande successo.
Adesso sono un buffo esotico incastro di candide mollezze.
Un tempo salivo scalette per spolverare pratiche, ora rovescio candidamente la boule con i poveri pazienti pescetti rossi che non hanno colpa di nulla.
Altro sintomo di invecchiamento.
Se fossi stata un colore sarei stata sicuramente un "Mauve", andava molto di moda allora e mi piaceva quel suono, pronunciandolo. Per quello avevo un bella serie di camicette "Mauve". Ne ero orgogliosa. Ora so che erano viola, semplicemente viola. E in teatro non portavano neppure bene.
Se avessi avuto una figlia sarebbe stata un'inossidabile Camilla per la fine tristezza che induce al rispetto.
Lui invece che mi fissa muto e consenziente è un dilettante della rivoluzione, modello disperato erotico stomp, ed anche della vita.
Un vero fasullo!
Mi identifico in un caldo morbido sari di seta, timidamente sottomesso ad una fredda, austera pelliccia di Astrakan. Lui in un vecchio maglione e in un paio di jeans pronto a sfilare in un corteo di menzogne.
Sono pigra, non faccio più le valige.
Sono le 23,15 del 30/11, tra un mese esatto più un giorno finirà un altro anno. Temperatura: 4°. Vento 17,6 km orari, proveniente da nord. Segno zodiacale Saggittario, a me porta bene.
Scrivo una lettera alla sua foto.
«Mio caro anarchico governatore, non mi sono sposata per ripicca. Per quanto ti risulti difficile accettarlo, l'ho fatto per le solite, antiquate ragioni: amore e rispetto. Ora dentro di me è rinata un'altra vita, dal seno di una donna autoinseminata, il cui volto è brutto quanto il tuo è bello.
A questa creatura consentirò di vivere...».
La biro improvvisamente si inceppa... non scrive più.
L'orologio segna le 23.59, il barometro scende a 3°, inizia a piovere.
Non posso più, né voglio più partire. Mi spoglio, mi infilo nel letto caldo. Ti mando un bacio. Annuso per un'ultima volta con la fantasia il tuo caldo umido profumo di seta bagnata. Stop!
Devo proprio restare, sai la mia vita è qui...
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